Per mia grande fortuna sono nata da una madre e un padre illuminati e cresciuta dunque in una famiglia dove le basi (e non solo le basi) del pensiero nato dalle conquiste femministe, sono sempre state date per scontate. È stato questo l’ambiente che ha nutrito per tutta la mia vita le radici solidissime di un apparato ideologico che ad un certo punto è esploso in una forte inclinazione al dibattito in difesa dei diritti delle donne. Ad accendere il fuoco femminista dentro di me piuttosto recentemente sono state delle vicende personali molto spiacevoli e la conseguente condizione di disagio che ho provato nel sentirmi giudicata per alcune mie scelte estetiche, sessuali, sentimentali ed emotive. A partire da qui è nata la mia riflessione sul fatto che per anni e anni, probabilmente per tutta la vita, avevo considerato certi comportamenti tipici del sistema patriarcale come normali, li avevo subiti e accettati malgrado, e qui voglio porre l’accento, malgrado mi mettessero profondamente a disagio.
Secondo i Pitagorici il moto dei pianeti, compreso quello che abitiamo, produce un suono perpetuo che noi non percepiamo solamente perché ne siamo assuefatti, lo sentiamo fin da quando nasciamo e come dice Aristotele “non è reso percepibile dal contrasto col silenzio”.
È questa la metafora perfetta per definire dal mio punto di vista, il disagio che ho provato per tutta la vita nel subire le angherie maschiliste e sessiste generate dal patriarcato ed è da qui che vorrei partire per affrontare una questione che ormai per me ha assunto importanza vitale. La metafora del suono dei pianeti non la applicherei solo alla mia esperienza personale, ma all’esperienza di tutti coloro che si trovano immersi in un sistema, quello patriarcale, di cui spesso e volentieri non riescono a vedere e a considerare le prepotenze, semplicemente perché le hanno viste e/o subite per tutta la vita e tendono a ritenerle normali. Ovviamente chi più tende a normalizzare e dunque a liquidare la problematica femminista con frasi sfastidiate (così direbbe mio padre), banalmente provocatorie, sciocche e irrazionali, sono i maschi (bianchi etero cis c’è bisogno che lo dica?)
Se dal mio punto di vista la metafora pitagorica è applicabile ad un senso di disagio infatti, nel loro casi si applica ad una condizione del tutto opposta e perché no, direttamente proporzionale all’entità del mio (e non solo mio) disagio. Questa condizione si chiama PRIVILEGIO. La maggior parte degli uomini con cui mi sono trovata a conversare in materia di femminismo, fatica moltissimo a riconoscere il privilegio in cui è stata immersa e di cui dunque ha goduto per tutta la vita. È questo il motivo per cui ad esempio molti miei amici, anche piuttosto evoluti, quando cerco di spiegargli perché il cat calling è un problema, spesso mi rispondono con la famosa frase di rito “tra un po’ non potremo dire più niente”. A mio parere la causa di frasi come questa e dell’incapacità di stare nel dialogo in maniera realmente costruttiva e non provocatoria o seccata, risiede in due questioni fondamentali:
La mancanza di empatia prima di tutto. Il fatto che quando cammino per strada, ormai dall’età di otto anni, io debba cambiare direzione o abbassare lo sguardo se vedo un capannello di uomini è un problema. Ed è un problema sia perché mi mette a disagio, sia perché non mi fa sentire sicura, sia perché il cat calling è un mero esercizio di potere che non ha alcuno scopo positivo o costruttivo. Se mi fischi per strada o mi urli che sono una fregna non è perché stai tentando un approccio. Non credo che dal cat calling siano nate mai grande storie d’amore. Voi che dite? Lo fai semplicemente perché puoi farlo e perché sai che non ci saranno conseguenze di alcun tipo. Detto ciò tutte le volte che ho spiegato questo ad un maschio bianco etero cis, non ho mai ricevuto manifestazioni di empatia dall’altra parte. Nessuno ha mai tentato di mettersi nei miei panni. La prima reazione è sempre quella di alzare gli occhi al cielo o rispondermi che i problemi sono ben altri. E qui mi aggancio al secondo punto. Perché gli uomini (spesso anche le donne certo, ma questa è un’altra storia) non empatizzano con me quando gli parlo del mio disagio? Perché non mi sono mai sentita dire “certo bella rottura di coglioni. Se il cat calling non esistesse, un sacco di gente vivrebbe meglio e si sentirebbe più sicura. In fondo che ci vuole a tenere la bocca chiusa quando vedi passare una tipa”? Perché mi viene detto che non è un problema rilevante; che prima bisogna occuparsi di altri problemi più importanti? Quali sono sti problemi più importanti? Ce ne saranno senz’altro. Ma affrontarne uno che rientra nel più grande quadro di cambiamento culturale contro la tossicità del patriarcato, non esclude che se ne possano affrontare altri cento o mille ritenuti “più importanti”. La risposta a tutte queste domande che riassumerei nell’unica questione “Perchè i maschi etero cis non empatizzano con la questione femminista?” La ritrovo nel secondo punto:
Il terrore di perdere il privilegio: “ma come? Ho fatto come mi pareva per tutta la vita (o comunque sapevo di poter fare come me pareva senza il timore di ripercussioni) e adesso, nel 2022 volete togliermi i diritti di cui ho innocentemente goduto finora? Questa è discriminazione. E che è maschilismo al contrario?”
Sti cazzi se fischiando alle tipe per strada qualcuna si sente a disagio, sti cazzi se protestando contro l’uso delle parole sindaca e ministra continuo a sostenere una cultura e un sistema che nega costantemente alle donne posizioni di potere e prestigio; sti cazzi se un tipo pieno di soldi e potere ha sfruttato la propria posizione per violentare decine di donne: “quelle ci sono andate, mica si possono lamentare!”
Non ci concentriamo ancora una volta sul fatto che un sistema in cui le posizioni di prestigio sono ricoperte quasi solo da uomini che le sfruttano sistematicamente per svuotarsi le palle, il problema non è rappresentato dalla ventenne che ci va a letto ma dal sistema stesso.
In poche parole l’impressione che ho è che il prezzo dell’empatia sia (anche inconsapevolmente per carità) considerato troppo alto da molti di coloro che vivono in una condizione di privilegio a cui sarebbe troppo oneroso rinunciare. Forse tutto ciò è accompagnato anche da un senso di colpa latente che probabilmente angoscia gli animi di coloro che si sentono più evoluti e che magari nella loro vita hanno già compiuto degli sforzi minimi per scrollarsi di dosso la lettera scarlatta del maschilismo, ma non sono disposti a compierne di nuovi e più impegnativi. L’accusa di maschilismo è, per fortuna e grazie alle lotte femministe del passato, quasi universalmente considerata un’onta grave anche dagli uomini e dai ragazzi, figli di un’era che dà per scontata la gravità di certe azioni (violenza e molestia, oltre non si va e a volte è anche difficile ammettere quando si tratta di violenza e molestia), ma che fatica a comprendere che la società moderna è ancora ben lontana dall’ideale della parità dei sessi. Le frasi: “voi femministe avete rotto il cazzo”, “ormai le tematiche femministe sono state ampiamente discusse, tutti le conosciamo, è inutile che continuate a fracassarci la minchia”, “avete fatto le vostre conquiste, cos’altro volete?”, “io non sono maschilista, mica picchio le donne” sono assai indicative per capire come il maschio bianco etero cis percepisce il dibattito femminista. È come se fosse un capitolo chiuso, un argomento già dibattuto a sufficienza e su cui quindi non c’è alcun bisogno di tornare. Non è chiaro, e non solo in materia di femminismo, che il dibattito è l’arma più potente per il progresso sociale. Una società evoluta non può fermarsi, godere delle conquiste che hanno fatto le nostre nonne e madri sessant’anni fa e infastidirsi se qualcuno gli pone di fronte l’amara e scomodissima verità: sei evoluto amico mio, sei un bravo ragazzo e una persona fondamentalmente buona, ma sei maschilista o perlomeno hai sicuramente dei comportamenti e delle convinzioni maschiliste. Avere degli atteggiamenti e dei comportamenti maschilisti non ti rende una persona orrenda, ma continuare a girare la testa dall’altra parte per non scontrarsi col proprio senso di colpa, ti rende come minimo una persona mediocre. Mi sembra che in molti casi ci sia un forte rifiuto di mettersi in discussione per non affrontare la vergogna di appartenere ad una categoria privilegiata. Non c’è vergogna nell’essere nati bianchi, non c’è vergogna nell’essere nati maschi nè nell’essere nati etero e cisgender. Non l’avete e non l’abbiamo scelto noi. Ma è vergognoso respingere il dibattito, non ascoltare chi ti comunica un disagio dal basso, rifiutare di mettere in discussione quelli che siamo stati fino ad oggi per essere migliori domani. Essere privilegiati non ci rende delle cattive persone, ma per continuare a definirci brave persone dobbiamo abbracciare il cambiamento.