C’avete mai fatto caso che ogni volta che avete un problema che non sia la morte avvenuta o imminente di un vostro caro, la gente tende a sminuirlo?
La questione della misurabilità qualitativa dei problemi personali mi porta davanti a due considerazioni su cui non posso fare a meno di interrogarmi.
La prima: ma questa scala della gravità dei problemi, che rende misurabile non solo il problema in sé, ma anche il grado di sofferenza che ognuno dovrebbe dedicargli secondo un metro oggettivo, chi se l’è inventata? Davvero è ancora così difficile capire che gli esseri umani hanno diverse sensibilità, diverse esperienze e diverse storie e che la percezione di un evento più o meno traumatico cambia necessariamente anche in base alle suddette differenze?
Uno degli effetti più fastidiosi della sindrome da ”Problemometro”, è il tono condiscendente con cui, chi crede di aver avuto esperienze davvero traumatiche si rivolge a chi secondo il Problemometro, si strugge per problemi di dubbia rilevanza.
“Va tutto bene?”
“Mmm oggi non direi?”
“Ma è successo qualcosa?”
“Sì”
“Spero nulla di grave. A casa tutti bene?”
“Sì a casa tutti bene ma sai ho qualche problemino a lavoro (ho qualche problemino col mio compagno; ho qualche problemino perché sono depresso; ho qualche problemino perché ho litigato pesantemente con un’amica; ho qualche problemino perché mi vengono degli attacchi d’ansia insostenibili…) ultimamente”
“Ah vabbè ma quelli non sono problemi”
E chi cazzo te l’ha detto che non sono problemi? Ah ma certo: è stato il tuo infallibile PROBLEMOMETRO. Come ho fatto a non pensarci.
La mancanza di empatia nei confronti di chi ha una sensibilità ed esperienze diverse dalle nostre, crea peraltro un grande dislivello comunicativo che pone gli interlocutori su due differenti piani emotivi e talvolta anche morali.
Per fare un esempio: se io che ho perso un genitore mi rivolgo a te che ce li hai entrambi, ma nella vita hai problemi di altra natura, con le tipiche frasi “Fossero questi i veri problemi” o “Tu non puoi capire”, sto creando un flusso unilaterale di empatia che scorre solo da me verso di te, come se il sovrainsieme di problemi “ORFANO” possa automaticamente rendersi onnicomprensivo di tutte le altre sottospecie di problemi della vita come “DEPRESSIONE” “DISTURBI ALIMENTARI” “GENITORI TOSSICODIPENDENTI” “MOBBING” “DIVORZIO” “ROTTURA CON IL FIDANZATO”.
Si riduce tutto ad una considerazione quantitativa piuttosto che qualitativa delle avversità della vita, senza pensare che chi non è mai stato depresso o non ha mai sofferto di disturbi alimentari, senz’altro non può comprendere cosa significhi soffrirne, pur essendo rimasto orfano di uno o due genitori. Il punto è che la creazione di questo dislivello parte dal presupposto che non aver subito determinati traumi come la perdita di una persona cara, sia quasi una colpa, cosa che ovviamente non è.
La seconda questione posta dalla sindrome del PROBLEMOMETRO è legata in modo particolare alla percezione delle fragilità e alla sua accettazione.
Capita a tutti di essere visibilmente sottotono o tristi, cosa che può avvenire per una quantità incommensurabile di motivi: perché ci siamo svegliati male, perché ci è morto il cane, perché non abbiamo preso il caffè, perché siamo tristi e basta senza alcuna particolare ragione. Presupporre e soprattutto pretendere che per essere tristi debba per forza esserci una ragione valida secondo la scala del PROBLEMOMETRO sembra nient’altro che una forma di rifiuto delle fragilità caratteriali o anche solo momentanee. La pretesa che si sorrida sempre, o si debba stare per forza bene, mi ricorda inevitabilmente la brillante nota a piè di pagina del saggio di David Foster Wallace, Una cosa divertente che non farò mai più.
…questo discorso riguarda anche il fenomeno fondamentale del terziario e per quanto mi ricordo, in nessun posto sono stato oggetto di tanti sorrisi professionali quanti sulla Nadir: i maitre, gli steward, i responsabili dell’hotel, il direttore di crociera- i loro sottoposti si accendevano come interruttori non appena mi avvicinavo. Ma anche al ritrono sulla terraferma, nelle banche, nei ristoranti, al check-in dell’aeroporto, eccetera.
Lo conoscete questo sorriso – la strenua contrazione dei muscoli peribuccali con il parzaiale coinvolgimento degli zigomi – un sorriso che non ce la fa ad arrivare agli occhi e che non è altro che un tentativo calcolato di favorire gli interessi personali di chi sorride, facendo finta che gli piaccia colui che riceve il sorriso. Perchè i datori di lavoro e i superiori costringono i loro inferiori ad allenarsi nel sorriso professionale? Sono forse l’unico cliente in cui grandi dosi di sorrisi del genere producono dispersione? Sono l’unica persona al mondo ad essere covninta che la causa del numero crescente di fatti di cronaca in cui persone all’apparenza assolutamente normali cominciano a sparare con pistole automatiche nei centri commerciali, nelle agenzie di assicurazione, nelle cliniche private e nei McDonald’s dipende anche dal fatto che posti del genere sono be noti vivai di propagazione del sorriso professionale? Chi credono di prendere in giro col sorriso professionale?
In un momento storico come questo, dove le speranze verso un futuro migliore per le generazioni a venire, ma anche per la nostra, diminuiscono sempre di più, e dove i problemi nati con lo sviluppo della società del benessere sono ormai noti a tutti e classificati anche clinicamente, sembrava potesse esserci più posto per una maggiore accettazione della fallibilità e della debolezza umana ma a quanto pare non è così.
Mi auguro comunque che un giorno il PROBLEMOMETRO possa trovare consistenza fisica. Così al prossimo che mi dice “Fossero questi i problemi” almeno glielo posso sfondare in testa.