Nelle ultime settimane mi è capitato piuttosto spesso che qualcuno abbia sentito l’irrefrenabile necessità di ricordarmi quanti anni ho: nel corso di conversazioni di natura del tutto estranea al conteggio delle primavere che ho visto fiorire, ad un certo punto qualcuno ha bisogno di dirmi che sono vecchia.
Ho 36 anni. Non sono certo una bambina e sinceramente non vedo quale sia il problema. Mi sembra al momento del tutto controproducente ai fini della riflessione esclamare con indignazione: “ho 36 anni, mica sono così vecchia, eppure mi viene sottolineato piuttosto spesso” perchè la verità è che anche se ne avessi 65 non vedrei in cosa consisterebbe la problematicità di avere una determinata età.
In fondo si tratta di un dato di fatto, di una faccenda sostanzialmente ineluttabile. Il tempo lo è e immagino che diamo tutti per scontato il fatto che non c’è colpa o merito alcuno nell’essere nati in uno specifico anno. Eppure quando si parla della mia età, ultimamente mi viene sottolineato con un certo spirito derisorio che ormai ho più di trent’anni, sono da buttare, sono una milf (non sono nemmeno madre ma vabbè), che non ho più l’età e chi più ne ha più ne metta.
Vorrei per prima cosa precisare che la maturità è stata per me una grande rivelazione. I miei trent’anni mi hanno permesso di scoprire chi sono, il mio sviluppo intellettivo ha raggiunto il suo apice, donandomi una capacità di analisi profonda della realtà e una visione del mondo nuova, più aperta, adattiva, flessibile e incline alla considerazione del punto di vista altrui. Sono diventata la donna che avrei sempre voluto essere, ma che per immaturità e per contingenze assai sfavorevoli (dovute all’immaturità) nel corso del mio decennio 20-30 non sono mai riuscita a scegliere di essere. Sono una donna libera, con solide convinzioni, una cerchia di amici fidati e un compagno che si incastra perfettamente col mio modo di essere. Tutto questo si accompagna ad un fisico ancora sano, resistente e in salute, che mi permette di fare una vita soddisfacente e di strapazzarlo un po’, trascurando tutta una serie di preoccupazioni che ahimè si fanno più impellenti col passare del tempo. Personalmente credo che il decennio 30-40 sia la mia età dell’oro.
Ho sempre pensato che ognuno di noi nasce con un’età mentale predefinita che non corrisponde a quella anagrafica, se non per quel ristrettissimo lasso di tempo in cui le due giungono a coincidere. Prima e dopo quel ristrettissimo lasso di tempo siamo destinati a sentirci dei pesci fuor d’acqua perché quello che la società e chi ci sta intorno si aspetta dalla nostra età anagrafica, non corrisponde a quello che possiamo dargli, a causa della nostra età mentale. Per fare un esempio e riallacciarmi a quanto detto prima, io sono nata che avevo già trent’anni, probabilmente li ho sempre avuti, ma la mia età interiore non corrispondeva mai alla mia infanzia, alla mia adolescenza, ai miei anni da matricola, motivo per cui mi sono trovata a disagio nella maggior parte delle situazioni che ho vissuto fino a che i miei perpetui trent’anni interiori hanno incontrato i miei trent’anni anagrafici. Ognuno avrà un’età interiore diversa immagino. Ma la mia è solo una teoria romantica per giustificare quanto mi sono sentita inadatta per tutto il tempo che ha preceduto l’oggi.
Celebrazione del decennio 30-40 a parte, vorrei tornare a bomba e analizzare questo problema dell’elicofobia (si me la so inventata adesso: dal greco ἡλικία: età e φόβος: paura): fino a questo punto della mia vita non ho mai avuto paura di invecchiare, non ho mai pensato alle rughe, al corpo che cambia, alla differenza nella performatività del corpo stesso. Probabilmente è normale visto che sono ancora piuttosto giovane, anche se ricordo compagne del liceo che già a diciassette anni si preoccupavano di come ritardare la comparsa dei segni del tempo sulla pelle. Magari un giorno ne avrò il terrore: amiche con dieci, quindici, vent’anni più di me, mi hanno detto che il momento duro è quando vedi la fisionomia che cambia visibilmente, il che avviene parecchio dopo i trenta. Dal canto mio ho la fortuna di avere una madre che non ha mai mostrato preoccupazione di fronte al passare del tempo e che probabilmente mi ha trasmesso parte della sua serenità in relazione alla questione dello “sfiorire” A prescindere da come andrà in futuro, la questione dell’invecchiamento è una cosa che non ho mai realmente considerato degna della mia attenzione. Il mio rapporto con essa si è sempre limitato all’indifferenza totale o al massimo ad un incurante: “vabbè io che cazzo ci posso fare, tanto è un destino che accomuna tutti gli esseri viventi”.
A questo punto la domanda che faccio a me stessa e a voi tutti è: ma perché se io non ho problemi con la mia età, ad un certo punto dovrà arrivare per forza qualche stronzo a farmi sentire inadeguata perché non ho più vent’anni? Come si fa ad essere inadeguate purché non si hanno vent’anni? Cioè a me me pare che il tempo passa pe tutti e che quindi toccherebbe essere un attimo più solidali su questa faccenda non trovate?
A partire da queste domande, le risposte che mi do sono fondamentalmente due e sono legate a due problematiche socio-culturali diverse ma in qualche modo interconnesse, relative alla percezione sia della vecchiaia nella donna, sia della vecchiaia in assoluto.
La prima riguarda la percezione che la società ha della donna e del suo invecchiamento. Il tono che accompagna le considerazioni sulla mia età è solitamente un tono derisorio, misto a una pietà di cui non ho affatto bisogno. Perché provare pietà per me? Perché non provare pietà per se stessi o per tutta l’umanità accomunata da un destino inesorabile? Ma a peggiorare ancor più la situazione, e qui vengo al punto, è l’immancabile abbinamento tono pietoso-considerazione sulla sfioritura da invecchiamento. Già perché la donna sfiorisce. Spesso sento dire che il tempo con gli uomini è più clemente che con le donne. A quanto pare loro diventano affascinanti, mentre noi…beh noi sfioriamo e basta. Ho creduto tutta la vita a questa storiella del tempo che è più clemente con gli uomini ma da qualche giorno qualcosa ha iniziato a prudermi…È davvero così? Davvero il tempo ha effetti sulle donne, tanto più devastanti di quelli che ha sugli uomini? E le panze? Le pelate? Le rughe e la pelle che cade?
Il punto è che a pensarci bene gli effetti sono esattamente gli stessi. Ma allora qual è davvero il problema? Perché anche nell’era post Sex&the City siamo costrette a pensare a questa eterna lotta con le ventenni dai fisici sodi e pieni di vita? La verità è che la percezione della femminilità e del valore della donna si lega troppo indissolubilmente e in modo ormai troppo radicato, alla sua bellezza. Abbiamo la percezione che gli uomini con l’età acquisiscano fascino per il semplice fatto che un uomo nella società patriarcale può essere considerato interessante per ragioni che vanno ben al di là della sua bellezza. Il potere, i soldi, l’intelligenza, il successo sono solo alcune di esse. Se ad un uomo togli la bellezza gli restano una miriade di valori per cui essere considerato interessante ed appetibile. Ma se alla donna togli la bellezza? In quale percentuale di casi una donna matura, oltre i cinquanta è considerata affascinante grazie alle sue doti intellettive, al suo potere, al suo successo. Ve lo dico io: praticamente nulla, se ai suoi risultati non si aggiunge un aspetto più che gradevole secondo certi canoni. Quello che la società si aspetta da noi è che siamo belle. Punto. E se perdiamo la bellezza non ci resta nulla a quanto pare: siamo solo dei rottami a cui guardare con aria rassegnata e incurante e a cui dare timide pacchette sulle spalle per ricordargli che ormai sono fuori dai giochi della seduzione, che ormai per i maschioni della nostra stessa età (con le panze, la faccia butterata e i denti ingialliti dal fumo e dall’alcol) è ora di volgere lo sguardo verso le carni fresche che escono dalla florida fabbrica della post adolescenza.
È davvero questo che mi deve interessare? È davvero per questo che mi devo sentire inadeguata? Perché la società in cui vivo ha deciso che in me non c’è nulla di realmente interessante oltre al mio aspetto? A me non va di sentirmi inadeguata. Sinceramente non mi ci sento in generale ma se il mondo intorno a me non fa altro che ricordarmi che lo sono, prima o poi ci crederò forse. E se non sarò io a crederci, magari lo faranno altre migliaia di ragazze e donne a cui viene continuamente ribadito il concetto.
La seconda risposta, come accennavo sopra, è legata alla percezione che la società odierna ha della vecchiaia in assoluto e investe sia le donne che gli uomini. Ricordo che quando ero piccola la vecchiaia era considerata sinonimo di saggezza: le persone anziane erano oggetto di ammirazione e rispetto. Erano i testimoni di una se non addirittura due guerre. Guerre a cui erano sopravvissuti e di cui portavano il terribile fardello. La loro memoria passava a noi attraverso i lunghi e dettagliati racconti che potevano, anche se alla lontana, darci un’idea di ciò che avevano passato. Ma cosa significa essere vecchi oggi? Dove stanno i vecchi? Li vedete? Io no. E il motivo credo sia che non costituiscono il target di alcun mercato. Ho l’impressione che nell’era dei social media, del personal branding e delle buyer personas; in un mondo in cui spesso mi sono sentita dire durante corsi di formazione “tu sei un prodotto”; in un’era dove ogni click e ogni tap del cazzo dicono qualcosa di noi e ci targettizzano come potenziali acquirenti di qualcosa, non ci sia spazio alcuno per le persone anziane. Corriamo continuamente dietro ad uno sviluppo tecnologico inarrestabile e viviamo in una società dove i più veloci e i più spietati hanno ottime possibilità di surclassare chi va anche solo un po’ più lento. Quale spazio trova l’anziano in una società che si muove a questo ritmo? La vecchiaia è poco performante e poco funzionale al progresso e qui ci trovo un enorme e inquietante paradosso: quel progresso che ci permette di vivere più a lungo grazie a mezzi tecnologici sempre più avanzati, è lo stesso che lascia indietro i più lenti, quelli a cui ha permesso di vivere a lungo; li scarta con disprezzo e noncuranza perchè incapaci di contribuire alla macchina spietata del sistema socio economico in cui viviamo. Ed è così che, meno lontano sei dall’età della performatività economica, più il tuo valore umano sembra affievolirsi agli occhi di tutti. La vita così è diventata un flipper de sguardi giudicanti verso chi poveretto “non c’ha più vent’anni”.
Con questo, sia chiaro, non ho assolutamente intenzione di condannare il progresso tecnologico da cui sono affascinata e a cui sono anche infinitamente grata. Lungi da me. Ma certamente trovo paradossale che seppur ponendosi al centro di tutto, l’uomo rifiuti una parte di se stesso con cui prima o poi tutti dobbiamo fare i conti. A prescindere da quanti soldi abbiamo guadagnato.